Grandes Jorasses – Reve effemere d’alpiniste

19 Settembre 2014

Dopo aver festeggiato il compleanno sul Pilier d’Angle, Max non è sazio e ripropone le Jorasses. La parete ha visto più turisti nelle ultime 3 settimane che negli ultimi 100 anni, come trovare un’alternativa valida rimanendo sullo stesso genere di salita? Unica alternativa è dribblare la scia luminosa delle frontali passando per un’altra via, meno conosciuta e più appartata. Era da tempo che sfogliando “la Bibbia dell’alpinista” ero incuriosito da quel tratto di parete confinato ad ovest, che nessuno considera, e che disegna una goulotte perfetta e rettilinea simile alla Ginat alle Droites. La mia mente malata era però andata oltre: quanto sarebbe bello concatenare Reve effemere d’alpiniste con una goulotte sulla parete N della calotta di Rochefort, per poi rientrare al Torino? Questo era il programma, e non l’abbiamo mancato di molto…

Saliamo al rifugio del Leschaux. Per me e Andrea è già la seconda volta di quest’anno. La prima meno fortunata che ci vide scappare di corsa sotto i fulmini alle 3 del mattino. Per Max invece è la prima dopo la nostra salita alla Walker di qualche anno fa. Al parcheggio sorgono i soliti dubbi da sovrafrequentazione… contiamo 11 cordate che con ogni probabilità sono diretti alle jorasses. Ma questa volta abbiamo un piano B, dobbiam solo cercare di pensare ad altro e non farci innervosire dalla folla. A distrarci ci pensano gli amici Marco e Marcello che incontriamo lungo il percorso, la cui simpatia non può che alleggerire l’atmosfera. Sveglia puntata alle 1:45, ma il trambusto del via vai di persone ci tiene svegli già dalla mezzanotte. Abbiamo appena finito di digerire la deliziosa cena che Cloé ci ha preparato poche ore prima, ed è già il momento di alzarsi e fare colazione. Uno sguardo fuori dalla porta e rimango a bocca aperta: la parete sembra un albero di Natale. Una scia centrale porta alla Colton MacIntyre, e tutt’intorno li vicino, lucine sparse costellano gli speroni limitrofi. Ok, spegnamo il cervello e restiamo concentrati sul nostro obbiettivo. L’avvicianmento è lungo e laborioso, entriamo in giganteschi crepacci per uscirne e risalire ripidi pendii. Oltrepassata la terminale della Colton, dove termina “l’autostrada”, il cammino non è più così evidente, le tracce spariscono e il terreno non è di facile interpretazione durante la notte. Uno sguardo all’insù mi dice che siamo sotto la muraglia del Croz, ma non mi aspettavo un terreno cosi movimentato, da lontano sembrava una conca pianeggiante e omogenea. Chiudo gli occhi e cerco di pensare a dove mi trovo, a fare un collage tra le foto che ho impresse in testa e quel poco che vedo intorno a me. Non devo farmi trarre in inganno dalle profondità sfalsate della notte. Secondo me è di qua: attraverso una seconda terminale non particolarmente piccola, che dà accesso a dei ripidi pendii. Il fiuto mi dice di continuare, anche se se i dubbi permangono. E’ difficile distaccare l’attenzione da ciò che vedi e riflettere solo sui punti certi… un pò come navigare nella nebbia col GPS! Traversiamo per una sessantina di metri questi ripidi pendii verso Ovest, passiamo una terza terminale in discesa ed eccoci sul pianoro glaciale!!! Evaiii! Siamo giusti. In pochi minuti siamo all’attacco.

Siamo sotto la via Slovena. A questo punto abbiamo ancora piena scelta d’itinerario, sopra di noi c’è solo una cordata ed è già molto in alto. Andrea e Max sono per attaccare la Sloveni, io ci penso un attimo e cerco di ragionare da Guida e non da climber entusiasta, alla fine mi diverto ma non sono li per divertirmi e devo fare le scelte giuste. No ragazzi, oggi si va su Reve Effemere. Siamo in 3 e più lenti. La via Slovena è tortuosa e lunga con una discesa delicata e pericolosa al pomeriggio. Avendo scelto di viaggiare leggeri senza sacco a pelo non possiamo rischiare di bivaccare e neanche di arrivare in cima troppo tardi con condizioni di innevamento poco sicure. Reve effemere è una via più corta e rettilinea, e abbiamo un bivacco d’appoggio per la sera.

Attacchiamo per un muro subito ripido. Una goulotte abbastanza larga si divide in due rami: scegliamo quello di destra per essre più vicini alle rocce con la speranza di poterci proteggere meglio. Le condizioni sono ottime, la neve pressata ci permete un progressione sicura, ma è spesso una falsa sicurezza perché le protezion scarseggiano davvero. Ci constringe infatti a lunghi tratti di corda tesa con una, a volte nessuna protezione, con una pendenza media tra i 60 e i 70 gradi. Rimango concentrato cosi come lo sono Max e Andrea. Mi fido ciecamente di loro, abbiamo fatto tante salite insieme e so perfettamente cosa sono in grado di fare, dove sono sicuri e dove no. Arriviamo finalmente alla goulotte alta. Ora riusciamo a fare delle buone soste. La parete si impenna, i tiri sono divertenti e piacevoli da scalare. Un ultimo tiro delicato di misto ci porta su una spalla a 50-60 metri dalla cima. C’è un ancoraggio. Guado dietro lo sperone e un’evidente discesa mi si apre davanti. Con 3 doppie siamo sulla neve e a pochi metri dal bivacco. Una breve traversata ci porta al colle delle Grandes Jorasses in pieno Sole. Questo luogo, è per noi uno dei più begli angoli del massiccio, isolato ed accogliente allo stesso tempo. Esaurite le foto di vetta ci rintaniamo al’interno a riposare. Sono le 12:20, la giornata è ancora lunga. Andrea e Max hanno una rara malattia che si chiama: claustrofobia da rifugio Più di un’ora in rifugio non riescono a stare per quanto bello possa essere il posto… allora che fare? L’idea di salire una goulotte sulla N della calotta il giorno seguente non sembra più di attualità per i motivi più vari. Di scendere a quell’ora non ci sembrava il caso. Allora, saliamo una bellissima goulottina che costeggia le doppie della Calotta sul colle, fino in cima alla Calotta stessa. Un tiro di ghiaccio ripido e duro ci fa da ciliegina sulla torta. Un ultimo tiro su roccia mi impegna particolarmente. Mi addentro in dei camini strapiombanti maledicendo la loro idea di proseguire (e io pollo che ci casco sempre!). Mi trovo incastrato senza piedi e con dei fantastici svasi per le mani e non so come uscirne! Mi guardo indietro, verso destra e vedo solo il vuoto. L’unica via di uscita è dritta cavolo. Mi ingegno un attimo sfoderanto ogni tecnica possibile di drytooling. Riesco ad uscirne trazionando una picozza rovescia come se fossi su un M9, e la lascio in posizione per Andrea e Max. Mi ristabilisco, son fuori e tiro il fiato. Mi guardo intorno pensando a quanto sarebbe stato problematico per loro fare quel passaggio. Mentre osservo e penso, mi cade l’occhio laggiù, proprio dove avevo sporto lo sguardo mentre ero incassato nel camino, e cosa vedo? Una comoda cengia nascosta sulla quale traversare senza fare numeri da circo equestre! Chiaramente scoppiamo tutti a ridere.

Rientriamo al bivacco per la sera. L’indomani, alle prime luci del giorno, scendiamo per le doppie che portano sul versante sud delle Jorasses, e scendiamo verso la val Ferret. Lungo il percorso ritroviamo molta della gente incontrata al rifugio il giorno prima in rifugio, ognuno con la sua bella storia da raccontare.

 

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